A cento anni dalla fondazione della Ligue Internationale de l’Éducation Nouvelle – tratto dall’intervento di Luciano Franceschi al convegno SIRD
Io non sono una persona di scuola. Non la vivo quotidianamente.
Se guardo alla mia storia di educatore, la mia strada la trovo all’interno dei Cemea, e non purtroppo nel mio iter di preparazione scolastica. Il CEMEA e la costellazione dell’educazione attiva hanno dato senso alle mie azioni.
L’attenzione alla persona e l’attenzione agli spazi e ai tempi in cui è inserita, il contesto accogliente e facilitante. L’uso del potere in termini di servizio, il costruire una spazio, un vuoto attivo nella relazione che chiami la persona a mettersi in gioco, a non subire la propria educazione.
Non sono un pedagogista sperimentale (ho scoperto che ci sono altri gradi di pedagogisti) sono un pedagogista in strada. Neanche una strada particolarmente pericolosa: sono un pedagogista di strade tranquille.
Quando mi muovo nella strada mi accorgo che devo spiegare il significato di questa parola “pedagogista” anche quando incontro le persone della scuola: gli insegnanti, i dirigenti, i genitori, il personale ausiliario.
A dire il vero incontro anche i bambini e le bambine, ma ad essi ho rinunciato, come ho rinunciato al gioco del catalogo dei laboratori da offrire alle scuole o alla guerra al ribasso degli appalti per i servizi o per i centri estivi.
1) La mercificazione della educazione
La mercificazione della scuola incide negli aspetti strutturali delle relazioni educative: la cooperazione educativa diviene un rapporto con un cliente. Dover accontentare il cliente, dover coprire nicchie di mercato educativo, dover essere trendy e ammaliante, pubblicizzare gli aspetti di immagine come primo approccio e non i contenuti, …
Tutto questo impone di formare aspetti specifici e non globali della persona; si torna a fornire persone da immettere nella comunità solo come lavoratori, si educa e si stimola l’essere consumatori e definire i rapporti reali come solo tecnici, di risposta. Si forniscono soluzioni, ma non si costruiscono persone in grado di costruire soluzioni. Nel contempo si torna alla macchina selettiva. È la nuova macelleria. Questo credo sia un campo da tenere presente, dove dobbiamo essere in grado di dire no. I nostri amici dei CEMEA francesi non si permettono mai di nominare l’educazione senza nominare la parola politico. Ogni azione educativa è politica, ogni situazione politica che offre la scuola come merce non può essere la situazione politica di chi fa educazione attiva.
2) La formazione degli insegnanti.
Quando incontro una persona insegnante che ha percepito la carica della pratica dei metodi dell’educazione attiva spesso mi chiede di intervenire nella scuola.
Qualsiasi istituzione porta in sé la compressione di alcune libertà della persona e i CEMEA sono sempre stati attivi nello scardinare gli aspetti oppressivi di una istituzione. Ma non si disdegna per questo di agire dall’interno, di individuare le fessure dove inserire un cuneo di pratica di liberazione.
Un primo cuneo sono queste persone: insegnanti, che evidentemente non trovano le pratiche di metodologia attiva nella propria scuola, ma che vogliono praticarle e l’istituzione scuola non le fornisce, o loro non trovano un facile accesso a situazioni istituzionali che parlano, o che spesso rassicurano, dell’utilità di queste pratiche.
Un secondo cuneo è costruire una situazione legale per intervenire. Io non sono persona di scuola e mi piace entrare, se ci riesco, a scuola, con quell’aria di profonda ignoranza di tutta la simpatica e importante meccanica che è una istituzione come la scuola. Chiedo alla persona insegnante di occuparsi del progetto e di tutte le istanze burocratiche: se ce la fa vuol dire proprio che ci tiene.
Cosa mi arriva immediatamente in questo muovermi ignorante? Mi accorgo che la figura del pedagogista non esiste e praticamente sarebbe invece molto utile. Le persone insegnanti in grado di fare educazione attiva sono sole. Vi è una frattura, un vuoto pesante sopra di loro. Non vi è una situazione che si occupa di loro. Se sono in una riunione per gestire un problema, o “i casi” dopo il tempo dedicato allo svisceramento delle mille sottigliezze e al pronunciamento degli obiettivi posti all’orizzonte, vi è un momento in cui mi guardano e mi chiedono: e domani che facciamo?
L’educazione attiva sa rispondere a questa domanda, ma spesso le persone insegnanti capaci hanno bisogno di essere rassicurati che la via dell’educazione attiva funziona e si può applicare. Che prima della soluzione ci sarà molto tempo utile di crescita di questa soluzione, che l’attesa e le azioni intraprese sono valide già in sé e non solo per la valutazione finale prevista. Che non siamo in una linea retta di produzione di una soluzione, ma in un gomitolo dove la gestione democratica e attiva di partecipazione della persona alla propria educazione produce comunque qualcosa di buono, magari distante dalla soluzione prevista, magari migliore, sicuramente rispettosa delle persone implicate.
Un mio collega un giorno mi ha parlato del bullismo degli insegnanti. Spesso in alcune situazioni di bullismo mi trovo a pensare molto più al bullo. Sostenuta e aiutata la vittima, ci resta un minore a sua volta da sostenere e aiutare. Quali situazione lo hanno portato da quella parte, dove è stato libero o non libero di scegliere, dove è stato condotto a essere così e se un insegnante abbia facilitato questa situazione.
Manca la manutenzione del capitale umano della scuola che sono gli insegnanti. Ieri si parlava di 800mila persone. Tolti gli eroi, chi si occupa di rassicurare nell’educazione attiva? Di sostenere nell’educazione attiva? Di formare nell’educazione attiva in itinere? Forse serve uno psicologo in meno (saluto gli amici e cugini psicologi) e un pedagogista o un formatore dell’educazione attiva in più, che conosce i processi e offre tempo sostegno alla pratica dell’attesa e appoggia il fare strabico: quello che rassicura sui passi incerti, lasciandoli nell’incertezza e dicendo che l’incertezza è il pane quotidiano.
Riporto una breve testimonianza di Luigi, un giovane insegnante che non trova nella scuola quello che aveva imparato e quello che aveva sognato. Prima se ne è andato in giro per i mondi educativi a compilare il suo patchwork. Quando è entrato nella scuola si è ricordato dei CEMEA.
“A scuola disperdo continuamente le mie energie in mille cose inutili, non riesco a concentrarmi, non finisco mai e a casa continuo a pensare di essere un maestro, ma comincio a diventare il maestro che non volevo essere. Si viene risucchiati dal sistema e ti adegui tu al sistema in cui entri, dopo un po’ di anni ti accorgi che stai cancellando tutto. Ti trovi in una condizione di isolamento, si perde ogni possibilità di confronto e ti trovi smarrito, poi pensi: forse ho osato troppo. Nella scuola si fa tutt’altro e ci guardano male …vogliamo portare quello che abbiamo imparato ma vediamo la difficoltà di chi è meno motivato. Io mollo.”
Abbiamo bisogno di maestri che non mollino, e quindi, di maestri aiutati a non mollare.
Prendo da un articolo on line di Stefano Zolletto delle frasi sul lavoro dell’insegnante:
Non è normale che un lavoratore dedichi tutto il proprio tempo al lavoro.
Una parte degli insegnanti lavora tanto, troppo. E questo è un serio problema.
Dell’iperlavoro degli insegnanti non frega niente a nessuno – dirigenti, sindacati, ministero… – a parte i loro familiari, che ne subiscono pesantemente le conseguenze.
C’è un gravissimo problema strutturale che rende impossibile alleggerire il carico di lavoro degli insegnanti: non di tutti, di quelli bravi.
Mentre per i compiti che un docente svolge a scuola è previsto un certo numero di ore, il lavoro domestico non ha nessuna definizione temporale.
C’è una sorta di teoria a monte, per cui sarebbe impossibile capire quanto un insegnante lavora a casa, ma c’è una pratica quotidiana costituita da lezioni ben preparate e da elaborati analizzati, corretti e valutati con serietà. Lo sanno bene gli alunni, ma lo sanno bene anche le famiglie. E in realtà lo sanno bene anche i dirigenti. Come dire, la qualità è un fattore ben visibile.
I bravi insegnanti non riescono a lavorare di meno: senso di responsabilità, etica, deontologia, passione, rispetto….
Se l’insegnante è bravo, significa che è anche affidabile, responsabile, partecipe della vita della scuola. Questo si traduce in soma. Un insegnante da soma su cui il sistema-scuola scaricherà tutta una serie di funzioni (e quindi lavori) che a ben vedere è difficile spiegare perché.
L’insegnante da soma coordina una classe – ovvero è il primo referente per colleghi e genitori. Oppure coordinatrice di un plesso e allora faranno riferimento a lei tutti i docenti, personale ATA e forse anche alcune famiglie di quella sede.
Nel contratto si dice esplicitamente che non è previsto che le funzioni strumentali abbiano esoneri dalle ore in classe. Per definizione sono ore di lavoro che si aggiungono a quelle che normalmente vengono svolte. Funzioni strumentali, non esseri umani…
Quanti gli insegnanti disposti a questo? Pochi, e proprio su quei pochi il sistema insiste.
La responsabilità viene premiata con carichi di lavoro sempre maggiori.
È un sistema crudele, che fa pagare a qualcuno la sua inefficienza precostituita.
Perché – la domanda è fondamentale – il sistema scuola non prevede che ci sia qualcuno che fa questi lavori, che hanno poco a che fare con l’insegnamento.
La formazione degli insegnanti sembra essere opzionale per il sistema scuola e non una priorità.
Nelle indagini europee, gli insegnanti italiani sono fra gli ultimi per grado di soddisfazione professionale.
Il titolo dell’articolo è “Gli insegnanti (bravi) hanno una vita (di merda) ed è difficile immaginare altro…”
Un insegnante è una persona e abbiamo creando per lui e per lei una qualità di vita sempre più impoverita e dura. Ha anche una famiglia e probabilmente un mutuo.
Poi ci si chiede anche perché il lavoro educativo sia diventato un’area esclusiva delle donne. Una delle risposte penso sia nella drammatica capacità indotta delle donne di sacrificarsi, di sopportare dolori e fatiche. È un prezzo alto quello che viene pagato, anche dagli uomini che insegnano. Lo fanno perché sanno che il sistema si regge – molto – sulle loro spalle. La buona scuola si fonda sulla vita di merda dei suoi migliori insegnanti.
Penso che l’educazione attiva sia vitale per mantenere le persone importanti vive. È una pratica che lavora sull’essere più che sulla programmazione. Che chiede di programmare, ma prima di tutto di “Essere pronti”. È una sana pratica artigiana che gode del momento educativo presente e ricarica nel mentre la si fa. Pensiamo solo a quando Dewey parla dell’insegnante come colui che deve scegliere responsabilmente e coscientemente le esperienze da proporre: non tutte le esperienze sono uguali. È chiaro che dentro queste scelte non vi è solo la scelta tecnica di esperienze generative di crescita, ma vi è anche l’autonomia, il rispetto del proprio lavoro, il godere del proprio lavoro, il sentirsi un potere di servizio.
3) L’idealità, la tensione morale dell’Educazione Attiva
A mio parere va rimessa a punto una connessione vitale con l’Idealità che esisteva nelle prime pratiche dell’educazione attiva, che erano rivoluzione, contrasto, che erano mai più guerre, che erano rispetto, che erano democrazia. Sì c’era tutta una situazione di analisi psicologiche di scoperte mediche e psicologiche, ma lo stimolo forte dell’educazione attiva era una forte idealità.
I CEMEA e i movimenti dell’Educazione Attiva inscrivono la propria azione nelle correnti di pensiero ispirate all’internazionalismo e alla non violenza, nella tradizione libertaria e democratica, senza uno specifico riferimento di appartenenza partitica. Si oppongono a quelle scelte politiche che aggravano le diseguaglianze e distruggono il vivere e il bene comune e si impegnano per la costruzione di un’alternativa sociale. I principi educativi che guidano l’azione educativa esprimono con forza esigenze e richieste politiche.
È quindi una adesione di pensiero prima di tutto, poi, nella sperimentazione, si trova anche una ragione scientifica. Una metodologia democratica è assunta solo perché è una specie di elemento evolutivo … ci si sente migliori … ma questo aiuta l’apprendimento?
In alcuni seminari, con alcune pratiche di valutazione e autovalutazione, sono state esposte attività in puro stile Freinet, pratiche sperimentate e dimostrate come efficaci, ma non è stato fornito questo legame stretto tra idealità e efficacia di educazione/crescita/apprendimento. Questo è un impegno? Spero di sì.
4) La forma e il contenuto.
L’assunto che muove ancora gran parte della didattica della scuola italiana è che per far imparare qualcosa a qualcuno, e quindi per insegnare, il metodo più scontato, lineare e apparentemente efficace sia quello di utilizzare il sistema della lettura di un testo associata a una spiegazione.
Tutti gli ideali che possiamo elencare si frantumano su questa pratica, che implica una concezione dell’apprendimento come processo trasmissivo, fondato sostanzialmente sul canale verbale, e richiede tempi di attenzione che tutti gli studi più recenti hanno verificato non essere sostenibili da un adulto. È il rifugio che nessuno osa abbandonare, fondato sul codice della dipendenza. La competenza pedagogica non serve, basta spiegare, richiedere lo studio individuale e infine interrogare.
Paulo Freire, altro centenario, parla di educazione “depositaria” che si perpetua nell’atto di trasferire, depositare come se fossero un pacchetto, conoscenze e valori in un contenitore vuoto, (l’alunno), in un’azione che scaturisce da un rapporto verticale fondato su un’asimmetria di sapere e possibilità.
Il Cemea mi ha insegnato a fare la tavola e a cucinare il giusto. A disporre gli ambienti e a calcolare i tempi delle persone e delle relazioni che vengono messe in atto.
Un amico mi ha chiesto se volevo una cassetta degli attrezzi per oggi…un set di brugole per scardinare le sedie e i banchi sui quali siete seduti! Le metodologie dell’educazione attiva mi hanno insegnato cos’è una brugola, e mi ha insegnato che il corpo ha la sua importanza nei processi di apprendimento ed educativi. Finché continueremo a fare lezione in questo modo, meglio … a non calibrare gli spazi e i tempi che ho a disposizione a seconda delle esigenze delle dinamiche che promuovo, ogni volta che parleremo di educazione attiva saremo i peggiori nemici di noi stessi. Nessuno mi ha insegnato questo all’università. L’educazione attiva che per me è il CEMEA, come dice il mio amico della brugola, mi ha donato le mani. Le avevo ma non erano dono, non erano risorsa.
Talvolta scherzando mi si chiede: “Ehi pedagogista come faccio a togliere il telefonino dalle mani dei bambini?” Anni di lavoro con la disabilità grave e gravissima mi dicono di non puntare sulla parte disabile. L’altra mano è libera: le attività manuali ci sono, l’esperienza e la sperimentazione esistono. Poi, naturalmente, tutto va reintrodotto in un processo educativo valido, altrimenti la nostra non violenza finisce alla battuta: “… ah, voi del CEMEA siete quelli dei lavoretti, dei cestini, dei burattini.”
Mi piace sempre ricordare la mia amica insegnante Ilenia che un giorno mi mostra la sua classe di 3° elementare senza bambini con i banchi disposti a isole. E mentre io ribadisco che la cosa non mi stupisce (perché la considero una insegnante brava), mi dice che quello è il modo con cui gli operatori scolastici ricompongono la classe alla fine della giornata. C’era voluto tempo e pazienza, ma era passata l’idea di come si lavorava nella sua classe.
Ecco … siamo in una università: quanto tempo ci vorrà ancora perché non pensiamo più e non trasmettiamo più l’idea che la disposizione dei banchi in una classe sia uno strumento di lavoro e non uno stereotipo di dove sta il potere?
5) La scuola fuori
La trasformazione della scuola passa necessariamente da un profondo ripensamento del suo ruolo all’interno della comunità; non soltanto rispetto alla comunità scolastica, ma al rapporto col territorio, con le istituzioni, con le realtà sociali e culturali.
Non sono parole mie. Io a scuola da solo non ci riesco a entrare, non c’è una sano collaborare, una tavola di coprogettazione. C’è un mercato al quale sottostare, ci sono cataloghi di offerta/laboratori da proporre, ci sono orari da appaltare.
La scuola è un castello impermeabile per chi vuole il suo bene, ma non appartiene alla scuola stessa. Chi le vuole male è riuscita ad entrare attraverso il mercato: compri al supermercato che ti promette i computer per la tua scuola e i bollini li attacchi su un bel poster, a scuola (dove la pubblicità dovrebbe essere proibita) con il marchio ben evidente, e il tuo bambino ti dice di andare a quel supermercato per completare il poster e magari ci aggiunge che lo ha detto la maestra.
Una delle conseguenze di questo arroccamento è sicuramente il proliferare di proposte descolarizzatrici, che hanno in realtà una lunga tradizione, da Fourier a Illich, una tradizione che mira a dissolvere l’idea che la scuola sia la sede adatta per l’educazione dei bambini e dei ragazzi. Ecco allora le scuole alternative, nella natura idealizzata e romantica, governata dall’uomo e dalle aspettative dei genitori.
Quando una vicepreside mi dice che loro (perché il dialogo avviene così “noi” e “loro”) fanno outdoor “perché portiamo i bambini in gita”, è chiaro che l’ideale di pacifismo scricchiola. Anche se poi però, conoscendo meglio la vicepreside, ci si accorge che è una di quelli insegnanti da soma detti prima.
E allora il problema della vicepreside è che non sa riconoscere chi vuole stare nella scuola pubblica e sostenerla e chi vuole solo usarla o privatizzarla. Chiunque abbia idee valide per un intervento del terzo settore all’interno della scuola, dove ci si possa sedere a un tavolo alla pari nel rispetto della funzione educativa pubblica e democratica della scuola, si faccia avanti. I patti educativi territoriali sono una idea, ma per ora quelli che mi arrivano, io li devo solo firmare. Mi spiace. Molto. Spero che ci siano vie per fare entrare altre visioni, quelle del terzo settore sano e responsabile, non mercanteggiante.
O forse siamo noi che non sappiamo vendere e che abbiamo solo 100 anni e come diceva il nostro passato convegno CEMEA di ottobre “l’educazione attiva è ancora una storia da raccontare”.
Da raccontare ancora, ma anche nell’equivoco che ancora esprime una situazione che non possiamo raccontare perché non ancora espressa, una situazione che viene domani.